Oliver Twist and the organ harvesters: a review from the Italian newspaper La Repubblica — in Italian.
‘L’Oliver Twist italiano e i trafficanti d’organi’
“Londra in una notte nebbiosa del novembre 1831, tre uomini girovagano per le vie di Londra su un carretto trainato da un cavallo, facendo tappa in un postribolo, in un paio di pub, infine in due ospedali, alla ricerca di un compratore per la loro preziosa merce clandestina. Gli uomini sono predatori di tombe. La merce che trasportano è il cadavere di un ragazzo italiano. Il compratore dovrebbe essere una clinica medica universitaria. Vendere defunti agli anatomo-patologi, che li sezionano per fare lezione agli studenti o per condurre esperimenti, è una pratica assai diffusa, tollerata dalle autorità del Regno Unito. I medici non fanno troppe domande sulla provenienza dei corpi. E i predatori fanno fortuna: un cadavere in buone condizioni vale dieci guinee, l’equivalente di una decina di sterline odierne (quattordici euro), trenta volte la paga che il dodicenne Charles Dickens guadagnava in una settimana in fabbrica, nel 1824, prima di diventare uno scrittore.

“Il commercio di cadaveri è dunque una professione redditizia. Ma non stavolta. I sanitari del King’s College, la facoltà di medicina sullo Strand, notano che il corpo è quasi caldo e che la causa del decesso è un violento colpo al cranio. Insospettiti, trattengono gli sciacalli con una scusa e chiamano Scotland Yard. I tre sono arrestati, incriminati per omicidio, condannati a morte: vengono impiccati un mese più tardi, davanti a una folla di quarantamila persone, e i loro corpi, con macabro sarcasmo, finiscono al Royal College of Surgeons, affinché i suoi chirurghi si esercitino a piacimento. La vicenda cattura l’attenzione di tutto il Paese.

“Il Times dedica pagine alle indagini. L’opinione pubblica si commuove a conoscere i particolari della vittima: ‘The Italian Boy’, il ragazzo italiano, come lo hanno soprannominato i giornali, un piccolo mendicante che faceva spettacolini di strada attorno al mercato di Covent Garden, con appesa al collo una gabbietta in cui corrono due topolini bianchi. Ma perché sia fatta piena luce sulla sua identità, e sul significato della sua fine, devono trascorrere due secoli.

“Bisogna arrivare ai giorni nostri, alla ricostruzione di un’ ostinata cronista inglese, Sarah Wise, il cui libro, The Italian boy, murder and grave robbery in 1830s London (Il ragazzo italiano, omicidio e furti nelle tombe nella Londra del 1830), sostiene che la morte del piccolo italiano segnò il trapasso tra due epoche: preannunciando l’avvento dell’ era vittoriana, a base di ordine, efficienza e moralità. Il ragazzo si chiama Carlo Ferrari e viene dal Piemonte, precisamente dalla Savoia, dove un padre con troppe bocche da sfamare lo vende a un avventuriero di passaggio. Questi lo porta con sé oltre la Manica, a Birmingham, rivendendolo a un “padrone” di giovanissimi senza tetto e senza famiglia, tenuti sostanzialmente in schiavitù, obbligati a chiedere l’ elemosina o esibirsi nelle strade. Carlo passa da un padrone all’ altro, scappa, viene ripreso, picchiato, venduto di nuovo. Fugge ancora, a Londra, dove si arrangia a sopravvivere da solo, con una gabbia di topolini bianchi e una tortora ammaestrata. Nel 1831, ha quattordici anni: bassa statura, occhi grigio-chiari, capelli lunghi e lisci, lineamenti dolci. A Oxford street, a Covent Garden, nei vicoli maleodoranti dell’East End, è una presenza familiare a bottegai, passanti, poliziotti, con il suo grido mezzo in francese, mezzo in italiano, ‘Donnez un louis, signor», donatemi un luigi.’

“Nelle strade di Londra, in quegli anni, gli ‘Italian Boys’ sono numerosi e ben riconoscibili. Ci sono i ‘figurinai’ che lavorano la cera, fabbricando statuine, accompagnati da fratelli maggiori o genitori, molti provenienti da Lucca; i burattinai, con un teatrino ambulante di fantoccini e marionette; e all’ ultimo gradino i menestrelli, giocolieri, ballerini, che si esibiscono insieme a piccoli animali ammaestrati. Carlo Ferrari (chiamato anche Carlo Feriere e Charles Ferrier, alla francese, nei documenti giudiziari), è uno di questi ultimi. Ogni tanto va a rifugiarsi nella Cappella Italiana di Oxenden street, all’incrocio con Haymarket, dove gli offrono un tozzo di pane e un pavimento asciutto su cui dormire. Ma la sera del 4 novembre è in un’altra zona dell’East End, a Crabtree Row. Fa freddo, piove, le case scompaiono nella nebbia; lui ha fame e non sa dove dormire. Il destino lo porta ad accucciarsi sotto la tettoia di una stamberga: l’abitazione di John Bishop, il capo di una banda di commercianti di cadaveri. Nel buio, un vicino sente un grido e un tonfo. Poco dopo, i tre assassini caricano la merce sul carro, dirigendosi verso il centro. Fanno tappa in un pub per scaldarsi con gin e rum, s’attardano con una prostituta, bussano alla porta di un ospedale, poi al King’s College. Il giorno seguente, quando la polizia perquisisce la baracca di Bishop, i suoi bambini stanno giocando con la gabbia di topolini del mendicante italiano.

“Non è la prima volta che gli sciacalli di cimiteri, non trovando corpi sottoterra, ne procurano di freschi, uccidendoli con le loro mani: a Edimburgo, tre anni prima, due predatori di tombe sono stati incriminati per l’ omicidio di tredici vagabondi. E a Londra spariscono di continuo ragazzini, per lo più orfanelli, mendicanti o delinquenti, spesso italiani: quando la polizia annuncia il ritrovamento del corpo di Carlo Ferrari, otto famiglie di immigrati vanno all’ obitorio per vedere se è il loro bambino. Da morto, Carlo diventa una celebrità. La sua storia viene rappresentata a teatro. La buona società, inorridita da tanta miseria e depravazione, fa autocritica: così non si può andare avanti.

“Negli anni successivi, il parlamento approva una legge per regolamentare il modo con cui le cliniche mediche si procurano cadaveri per i loro studi scientifici. Una storia alla Oliver Twist, ma autentica e senza il lieto fine del romanzo di Dickens. Perfetta per rivedere l’Inghilterra dell’Ottocento. E per immaginarci dentro i nostri primi immigrati: la prossima volta che passate da Covent Garden, chiudete gli occhi e provate a sentire la vocetta di Carlo Ferrari, che squilla «donatemi un luigi, signor». Così eravamo, a Londra, poco meno di due secoli fa.”